lunedì 21 aprile 2014

F FOR FAKE

Francesco Bortolotti, Eros & Thanatos, 2011, 50 x 50 cm






















"Ci sono due professioni che hanno sempre rifiutato di lasciarsi inquadrare: gli psicanalisti e gli esperti d’arte. Chiunque può dirsi psicanalista o esperto e appendere alla propria porta una targa di ottone con la menzione della propria autorità. L’oggetto o la persona di cui le due professioni si occupano rilevano della categoria dell’unico, che appunto non è soggetta alla regola comune. Ogni caso sottoposto all’attenzione fluttuante dello psicanalista è irriducibile alla norma, come il quadro sotto lo sguardo dell’esperto. Ma vi sono casi in cui l’esercizio della perizia artistica o della maieutica psicanalitica somiglia piuttosto ad una pratica sofistica o alla logica falsata di un ragionamento fallace, fondato sull’emotività dell’amatore o del nevrotico, e sull’argomento d’autorità di uno specialista autoproclamato.
Al paziente rimane il compito di districare, è proprio il caso di dirlo, il vero dal falso.
Per secoli e secoli, l’opera d’arte è stata un prototipo, di cui la perfezione formale e il rigore iconografico permettevano appunto la riproduzione e la diffusione. L’opera era realizzata il più delle volte a più mani, e non da una sola mano, unica e inimitabile; era inoltre diffusa, copiata, riprodotta, adattata, attraverso lavori di atelier, che mettevano in circolo il modello in regioni o paesi interi. Parlare di prototipo significa usare deliberatamente un vocabolario religioso che risale a Bisanzio e alla controversia delle immagini: il prototipo, che si fonda su un Cristo che è a immagine e somiglianza (eikon) di Dio, permette la riproduzione all’infinito dell’immagine che ne è al tempo stesso l’idea e la forma. La somiglianza è identità. L’adorazione dell’immagine è rivolta al prototipo. Non siamo qui nel campo del gusto (delectare) né del sapere (docere), ma nel campo della credenza religiosa. L’arte moderna è una fede.
Da qualche anno, questa fede vacilla, si fa meno forte, e la moltiplicazione delle dispute sui falsi e sugli originali è il sintomo di questa crisi, per vari aspetti analoga a quelle che hanno scosso il mondo cristiano, al tempo degli iconclasmi, da Bisanzio alla Rivoluzione francese.
Nel mezzo di queste querele di esperti ci troviamo in piena fantasmagoria, analoga e parallela alla fantasmagoria dell’arte contemporanea che ci induce ad accettare che delle pastiglie multicolori siano vendute a qualche centinaia di migliaia di euro purché siano della mano di Damien Hirst. La fede cieca si muta in magia nera. Magia della mano. Magia della credenza in un genio incomparabile, fascino del “fare” singolare, lavori interminabili degli specialisti sulla mano, mano unica, quadri dipinti a due mani, a più mani, lavori d’atelier, di scuola, copie…
L’ultimo, l’estremo stadio è stato raggiunto quando la presenza dell’artista moderno, l’artista posseduto dal furor divinus, non è più richiesta solamente nella sua “mano” ma nella forma ancora più diretta: simile al Dio che offre il proprio corpo agli umani, l’artista offre in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il nome di “opere d’arte”, scorie che saranno venerate come reliquie. Cosi gli umori, le secrezioni purulente, i sudori, lo sperma, il sangue, i peli, i capelli, le unghie, l’urina, e infine gli escrementi saranno proposti all’adorazione di quei nuovi fedeli che sono gli amatori dell’arte contemporanea. Per citare qualche nome: Marcel Duchamp, Salvador Dall, Piero Manzoni, per la sua Merda d’artista”, Kurt Schwitters, Louise Bourgeois, Gina Pane, Günter Brus, Hermann Nitsch, André Serrano, Wim Delvoye… la lista è senza fine.
Già la serigrafia di Andy Warhol cadeva in un vacuum semantico tale che solo l’abilità del critico d’arte poteva, in una rivista, o in un catalogo di esposizione, darle una forma, un nome, attribuirle delle qualità o delle essenze, far parlare l’opera insomma come la veggente fa parlare le carte. Ora, perché il critico d’arte diventi un personaggio essenziale, credibile, di questa manipolazione, occorre un’operazione singolare che farà della sua parola un dogma. L’effetto di “doxa” sarà ottenuto accostandogli due figure essenziali: lo storico d’arte e il mercante. Il mercante fornirà la merce, lo storico d’arte ne attesterà la provenienza e ne ricostruirà la storia.
Le operazioni intraprese per far montare il prezzo delle opere verso vette illimitate, il cui valore diventa indiscernibile agli occhi dell’onest’uomo, somiglieranno allora stranamente alle operazioni inaugurate dagli hedge funds nel campo bancario o fiduciario, attribuendo un prezzo a dei beni inesistenti, a dei prodotti fantasma, o più ancora al processo di titolarizzazione che trasforma un credito dubbio e che non sarà mai saldato in un titolo finanziario garantito e suscettibile di essere immesso nel mercato dei capitali.
Che cos’è allora un falso nell’arte se non un credito riposto in un oggetto detto “opera d’arte” e che si è riusciti, nonostante si tratti di un’opera miserabile o addirittura – come per le opere concettuali - inesistente, a far passare come dotato di valore?
La scienza dello storico associata al rigore del funzionario statale, la dissertazione prolissa del critico ventriloquo, sono così diventate la parola d’ordine per fare accettare oggetti di varia natura, dal mucchio di vestiti buttati a terra nella navata del Grand Palais da Boltanski fino al dito medio eretto da Maurizio Cattelan davanti alla borsa di Milano. Sarà sempre possibile dimostrare che questi oggetti, che questi gesti hanno un’origine, uno sviluppo, una loro logica, che sono iscritti nella storia, al seguito di Marcel Duchamp e di Picasso per esempio, e quindi attestarne la legittimità.
Sono arrivato a pensare che l’arte contemporanea è interamente composta di falsi, che sono dichiarati capolavori da critici dall’autorità assai più dubbia del sapere eminente degli storici di un tempo, esperti dedicati all’autentificazione dei capolavori dei tempi passati, che esitavano e dibattevano lungamente prima di pronunciarsi sul vero e sul falso.
Se questi conflitti sulla veracità, l’originalità, la falsità, la provenienza delle opere sono in questi tempi di un’attualità fracassante, è evidentemente a causa dei prezzi astronomici delle opere sul mercato. I prezzi delle opere di Damien Hirst o Jeff Koons hanno raggiunto in pochi anni cifre tali che nessuna spiegazione razionale può renderne conto. Non siamo più nel registro del gusto (si tratta di opere francamente brutte o addirittura repellenti), e neppure trattasi di rarità: sono opere indefinitamente riproducibili. Non hanno in realtà alcuna esistenza, e non hanno un “valore” se non attraverso il mercato che le propone.
Come il mercato dell’arte, fondato da sempre sul lungo termine, abbia potuto incrociare il mercato della finanza fondato sul brevissimo termine, al punto da fondersi con esso, qui sta l’enigma dell’arte contemporanea.
Acquisire un’opera d’arte, fino a qualche anno fa, voleva dire scoprirla, nelle sale discrete e silenziose di una galleria; vederla e rivederla prima di prendere una decisione. L’opera restava di proprietà del collezionista per lunghi anni. Se doveva essere venduta, capitava che la plusvalenza fosse considerevole, ma calcolata sul periodo di tempo in cui era stata nelle mani del proprietario,non era per nulla eccezionale. Acquistato negli anni Venti, un Picasso rivenduto negli anni 60 costituiva un capitale il cui rendimento restava modesto. Le opere d’arte contemporanee, proposte nelle sale rumorose e affollate delle case d’asta, sono apprezzate in funzione di una redditività elevata e quasi istantanea, e sono rivendute spesso dopo qualche mese o qualche settimana, giusto il tempo di cambiar di mano. Ubbidiscono dunque ad una logica che è quella dei mercati finanziari, che oggi funzionano sull’estrema rapidità delle transazioni, con l’aiuto di programmi informatici
che permettono di effettuare gli scambi a grandissima velocità. Come ha potuto l’opera d’arte, un tempo «fatta per l’eternità», diventare un oggetto prodotto a gran velocità, moltiplicato a piacere, null’altro che il supporto indifferente di operazioni speculative fondate su algoritmi completamente sconnessi dal mondo reale?
Il Balloon Dog di Jeff Koons, in acciaio inossidabile di quattro metri di altezza, prodotto con un procedimento che esclude ogni intervento della mano dell’artista, che si è limitato a fornire il modello, il palloncino per bambini venduto nei luna park, è stato tirato in cinque esemplari, identici salvo per i colori, e ciascuno è stato venduto tra 35 e 55 milioni di dollari.
È evidente che in questo caso, come per le serigrafie di Warhol, le nozioni di originale e di copia sono prive di senso. Ma direi di più: è proprio l’assenza di senso che permette di proporre questi prodotti a dei prezzi che non hanno limite. La perfetta riproducibilità tecnica dell’opera, che esclude ogni incertezza della mano, permette una miracolosa ubiquità, ormai presente, identica a se stessa, in vari punti del globo.
Il procedimento di Jeff Koons è già stato utilizzato tuttavia, in modo più artigianale, da scultori più classici, e con materiali più tradizionali. Ancora oggi le fonderie di Pietrasanta sopravvivono al loro declino grazie agli ordini di Botero, animali anche in questo caso, ma gatti, ingranditi meccanicamente per raggiungere dimensioni monumentali, a partire da piccoli bozzetti di cartone o di gesso.
Il carattere derisorio di tali produzioni è sottolineato dalla scelta della figura rappresentata. L’immagine acheiropoietica della Veronica ci tendeva il volto di un Dio che si era fatto uomo per noi. Koons ci propone l’immagine infantile e derisoria di animali da compagnia, di giocattoli da carnevale ingigantiti e smisurati, come erano le effigi degli imperatori romani della decadenza, e che propongono alle élite finanziarie che li acquistano il riflesso della loro vanità e della loro cupidità di “nouveaux riches”.
Ora, non resta nulla del corpo della pittura, di quel corpo un tempo adorato, venerato, ammirato, riprodotto, ricopiato, restaurato con amore. Non ci resta nulla. Nei prodotti che ci propone l’arte contemporanea non rimangono nemmeno dei residui, dei frammenti, delle reliquie. Nient’altro, nella sua assenza, nel suo vuoto, che quei feticci ridicoli, quei palloni gonfiati che ci propongono le Fiere dell’Arte e i palazzi veneziani. I loro prezzi crescono ogni giorno di più, e la loro crescita è all’altezza della nostra perdita senza oggetto.
Al feticismo sessuale come descritto da Freud, delle produzioni corporee, dei capelli, peli, e altre immondizie, segno del potere di un genio demoniaco che si è sostituito all’amore antico dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, si aggiunge qui il feticismo della merce, come l’intendeva Marx: che porta al possesso non di un’opera preziosa ma di una merce svuotata di ogni valore proprio, una sorta di titolarizzazione del nulla.
Gli Ebrei adoravano il vitello d’oro. Noi adoriamo i cani e i gatti di Koons e Botero.
Chi sarà il Mosé che spezzerà davanti a loro le Tavole della legge, scendendo da un monte Sinai?"

(Jean Clair, "L'arte è un falso", la Repubblica, 23/11/2013)                                    

lunedì 6 gennaio 2014

ANNIGONI 2

annigoni18.jpg

Pietro Annigoni, Autoritratto, 1946, tempera grassa su tela, cm 45 x 35,5



"Un ritratto somigliante, un ritratto che senza retorica riveli un carattere: dove se ne incontrano più? Vecchio problema e vecchio gioco, lo so, questo della somiglianza, tanto che due ritratti somiglianti a un originale possono non assomigliarsi tra loro. Il fatto è che a tanta verità l'Annigoni arriva con una sicurezza che non è bravura, ma un attento, lento e quasi flemmatico osservare: lentezza e attenzione, che sono fuori della moda corrente, la quale vorrebbe spregiare la realtà e richiamarla solo per allusione. Non dico che riuscire a creare di fantasia il vero non sia il proprio di pittori giunti, dopo un lungo studio della natura, all'altezza d'un Veronese, d'un Tintoretto d'un Tiepolo; ma i metodi dei geni sono adatti solo ai geni; e il male della pittura oggi è proprio la mancanza d'umiltà davanti all'arte, è che anche gl'ignoranti ragionano e, alla meglio, dipingono come se fossero tutti geni, così che riescono lodevoli non le opere loro, ma le loro belle intenzioni: che alla fine è un po' poco, e spesso assomiglia al niente. Qui, coi ritratti dell'Annigoni, s'è al polo opposto: cioè un meticoloso e sodo operare, con umiltà e probità, senza svaghi o girandole di programmi [...]. D'esser fuor di moda, l'Annigoni non si duole e non si vanta: e non se ne duole, ho veduto, nemmeno il pubblico. È un uomo felice nel suo lavoro perché, appoggiato così al vero, si sente sicuro come il fedele nel tempio del suo dio, protetto contro ogni vento e burrasca..."

(Ugo Ojetti, Corriere della Sera, 23/12/1932, cit. in Pietro Annigoni. Presenza di un artista, 2013, Edizioni Polistampa, Firenze, p. 1)

venerdì 28 giugno 2013

BIENNALI SOUVENIR


















Cesare de Seta, Biennali souvenir, 2013, Mondadori Electa S.p.A., Milano, copertina.

sabato 15 giugno 2013

IL TRUCCO DELL'AVANGUARDIA

Maurizio Cattelan, All, 2011, Guggenheim Museum, New York

"Un celebre motociclista insegnava che, se senti un rumore sospetto, non devi cercare il guasto, ma smontare e rimontare il motore.
Ho cercato di applicare la sua lezione allo strano e fantasmagorico mondo dell'arte moderna, la fuoriserie della nostra cultura: per molte ragioni era arrivato il momento. Dunque mi è sembrato giusto smontarlo e allinearene i pezzi. Ho trovato intuizioni meccaniche geniali ma anche molti, troppi pezzi affatturati, tenuti insieme in modo da far sembrare che tutto, come miracolosamente, marci ancora sotto la carrozzeria scintillante.
Ho subito pensato al mio amico Sal Scarpitta, che un giorno prese a ricostruire autoblindo e auto da corsa in modo che sembrassero vere, e che apparissero soprattutto funzionanti. Scarpitta lo sapeva, che le sue autoblindo non andavano da nessuna parte. Invece, il mondo dell'arte che ospita lui e tutti noi continua a fingere che sia tutto perfettamente efficiente e in movimento.
In fondo, per la vecchia regola del riferimento inerziale, se tutti gesticolano da fermi e non guardano mai all'esterno possono raccontarsi comunque che tutto si muove."


(Flaminio Gualdoni, Il trucco dell'avanguardia, 2001, Neri Pozza Editore, Vicenza, p. 9
)

lunedì 20 dicembre 2010

ONANISMO CRITICO 2


«A ogni epoca - a ogni autore? - il suo Chardin. È incredibile che questo geniale “prosatore” che dipingeva “a stretto contatto” del suo soggetto, abbia potuto ispirare apprezzamenti così opposti da apparire inconciliabili. Come far coesistere il pittore del pudore e dell’emozione contenuta di fronte alla fragile bellezza delle cose con l’”architetto” precursore dell’astrazione, l’artista delle virtù e della moralità borghesi col profeta della pittura pura? L’abbondante letteratura relativa a Chardin prodotta dopo la riscoperta del pittore tra la Seconda repubblica (1848-1851) e il Secondo impero (1851-1870) non ha saputo sempre resistere alla tentazione di insistere sulla sua modernità visionaria, sottolineando correlativamente la sua singolarità nella storia dell’arte francese a spese dei legami – innumerevoli - che lo uniscono ai suoi colleghi francesi o stranieri e, inoltre, alla storia della pittura europea. Così Chardin può figurare come un artista atipico in un secolo ritenuto superficiale, edonistico per non dire licenzioso [...]. Di uno splendore misterioso, risolutamente “pittorico” fino a disinteressarsi largamente della mediazione del disegno quando invece gli artisti del XVIII secolo disegnano tanto e così bene, la sua bravura, che lo pone allo stesso livello dei più grandi maestri dell’arte, contribuì ancora di più a fissare, quand’era ancora in vita, questa immagine ingannevole. Chardin conta così tra quei maestri che, con fracasso o silenziosamente, hanno potuto dare la sensazione di emanciparsi dalle condizioni storiche ed estetiche che li hanno plasmati. Questa idea di atemporalità di un’artista “trans-storico”, se non cessa di affascinare, deve tuttavia essere considerata con diffidenza proprio come quella, forse più pregiudizievole per un giusto apprezzamento della sua arte, della sua modernità. I primi a intuire la modernità della pittura di Chardin furono gli artisti del XIX secolo in rotta con l’accademismo, che stavano cercandosi febbrilmente dei precursori e lo convocarono, a questo scopo, a fianco di un Frans Hals che, come lui, accosta i tocchi di colore stesi a larghe pennellate, lasciando la dinamica della visione operare, a distanza, una fusione unificatrice che loro stessi disdegnano di portare a compimento. [...] Nel XX secolo e nel momento in cui i più grandi artisti continuavano a interrogare con profitto il maestro parigino, la critica, affascinata dalle nozioni di formalismo e di avanguardia, rovesciò la prospettiva fino all’irragionevole. È nota la frase di Malraux (Le voci del silenzio, 1951) - al quale delle idee vaghe e delle conoscenze incerte servivano da viatico per mettere liricamente il rapporto manifestazioni artistiche che tutto metteva invece in opposizione - a proposito della Vivandiera. Chardin, avendo operato “una distruzione segreta [della nozione di modello] a beneficio del suo dipinto” avrebbe in tal modo fatto un “Braque geniale [...] rivestito in modo appena sufficiente per ingannare lo spettatore”. In che modo questo accostamento forzato, falsamente audace, aiuta a comprendere meglio il quadro e le circostanze che hanno presieduto alla sua esecuzione? Oggi l’argomento della modernità si è completamente deteriorato per diventare il “mantra” col quale si calma il pubblico assicurandogli che un’opera da cui lo separano diversi secoli tende uno specchio immediato e compiacente al suo insaziabile e pigro narcisismo (guai a quelle che non passano l’esame e si vedono relegate nel ricovero delle aberrazioni del gusto da un’epoca all’altra!). La sorprendente associazione, a partire dal primo terzo del XX secolo, del nome di Chardin a ciò che fu uno dei grandi eventi della modernità, ovvero l’emancipazione della pittura dalla rappresentazione mimetica, dall’imitazione della natura e più in generale dal “soggetto”, non fu meno inopportuna. Il maestro francese avrebbe dunque anticipato una concezione dell’arte che non assegnerebbe alla pittura altro scopo che se stessa. Di fronte a questa asserzione, di cui è lecito pensare che l’interessato non avrebbe neppure compreso di cosa gli stessero parlando, bisogna ricordare alcune cose evidenti. La professione di Chardin consisteva non nell’elaborare in modo astratto delle costruzioni precubiste ma nel dipingere delle prugne, dei coniglietti o dei ragazzini assorbiti dai loro giochi in una maniera che sembrasse allo stesso tempo vera e naturale (ma cosa è più equivoco di questi concetti!) e che ottenesse il favore del pubblico. Specializzato, normalmente, nei generi ritenuti subalterni della pittura [...], Chardin fu un accademico assiduo, devoto, ed espose regolarmente al Salon. Rimise talmente poco in causa il primato della pittura di storia fissato dalla gerarchia accademica dei generi, che ambì ardentemente per suo figlio una carriera nel “gran genere”. [...] Poco istruito [...], spesso debole nel padroneggiare la prospettiva, segnato dall’orizzonte limitato proprio dell’ambiente di artigiani parigini in cui era cresciuto, ma dotato di una sensibilità pittorica eccezionale e di un sapere da professionista esperto, faticosamente acquistato, Chardin non ci guadagna niente a essere trasformato in pensatore astratto (o in discepolo di Newton e di Locke come si è congetturato). Il borghese parigino che visse negli agi dopo aver vissuto all’inizio miseramente [...] non ebbe niente del ribelle.»

(A. M. Du Bourg, Chardin, Dossier Art n. 272, Dicembre 2010, Giunti Editore S.p.A., Firenze - Milano, pp. 5-8)


ONANISMO CRITICO 1


Francesco Bortolotti, Soliloquio platonico, 2010, olio su cartone, 50x50 cm

Bruno Munari, l'osannato vate della creatività contemporanea, così si espresse nei confronti di quell'arte dei tempi nostri di cui è stato eletto, a torto o a ragione, santo patrono:

«Una scatola di plastica trasparente e piena di dentiere usate. Una merda [sic!] in scatola firmata dall’autore, dieci scatole da mezzo chilo. Un manichino da vetrina verniciato di bianco, un pacco di tela con centomila legacci di corde diverse. Una macchina che disegna scarabocchi. Un quadro fatto rovesciando il colore a caso. Una cartolina col paesaggio di Inverigo grande tre metri per due. Un tubetto di dentifricio grande dodici metri. Un particolare di un fumetto ingrandito. [...]

Ma che cosa dicono i critici d’arte che hanno il compito di chiarire questi problemi e divulgarli? Dicono che si tratta di un canto lirico della visualità frontale che evita il linguaggio a tutto tondo per un recupero dell’uomo nella problematica semantica entropica per una nuova dimensione fuori dal kitsch in un tempo oggettivato ludico e reversibile.

Ecco perché i ragazzi vanno a gridare tutti in coro la loro simpatia per i Beatles e vivono in case dove ancora ci sono attaccati ai muri buoni quadri dell'Ottocento, come si insegna a scuola [Munari 2003, 46-47].»

(citato in: Alessandro Dal Lago, Serena Giordano Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, 2006, Bologna, Società Editrice il Mulino, pp. 31-32)

lunedì 7 settembre 2009

MODERNO6


Paul Cézanne, Natura morta

«Non capisco perché oggi sono tutti ossessionati da questa folle ricerca della personalità, come fine a sé stessa. Oggi l’imperativo è ostentare e affermare la propria personalità. Che sciocchezza! Invece è proprio questa che fa dimenticare l’essenziale e impedisce di arrivare all’universale. Per me è la prima cosa che bisogna eliminare, come una pelle ingombrante e inutile. Invece oggi assistiamo a questa caricatura: tutto, dagli occhiali alle scarpe, deve essere firmato e “griffato”. È grottesco. Penso invece che i pittori dovrebbero ritrovare lo splendido anonimato dei loro antenati, vissuti prima del Rinascimento. La firma ormai condiziona il mercato, tanto che quasi si dimentica di guardare il quadro. La firma è il marchio dell’originale. Guardi Cézanne. Non ha mai cercato di essere originale. Eppure non c’è un pittore più originale di lui. [...] Non sono e non sono mai stato un pittore moderno. I pittori moderni cercano soprattutto di esprimere sé stessi, mentre io cerco di esprimere il mondo. [...] Percorrendo questa strada l’umiltà deve superare, e di molto, la preoccupazione di esprimere sé stessi.
Ma un pittore, anche quando non cerca di esprimere sé stesso, non esprime sempre una sua visione personale?
Naturalmente. Ma questo è un punto di arrivo, non un punto di partenza.»

(Baltus, Lettere e interviste, a cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano, 2009, pp. 58-59)